Nuovo governo, vecchie questioni.
Il nuovo governo si è definitivamente insediato il tempo emetterà il proprio responso sul suo operato, inutile e -forse- dannoso avventurarsi in previsioni sull’esito del mandato.
C’è però un punto, una premessa inevitabile, con cui questo governo nasce e che sarà sempre presente agli occhi degli osservatori e, forse dell’opinione pubblica: la storia politica da cui provengono la premier, il presidente del senato e alcuni tra ministri e sottosegretari. E’ inutile negare che rappresenti uno snodo problematico nella storia della repubblica: il governo più culturalmente e geneticamente vicino al fascismo che mai si sia visto. Una sfida per tutti, ma soprattutto per la democrazia. Una sfida, innanzitutto, per la premier e i suoi: dimostrare l’evoluzione dalle origini, l’abbandono della fascinazione per il duce e la compiutezza di un cammino democratico che approda ad una nuova formazione politica di destra conservatrice ma non solo collocata all’interno dell’alveo Costituzionale ma anche solidamente ancorata alle istituzioni europee. Una sfida perla democrazia: dimostrare di possedere sufficienti anticorpi per neutralizzare ogni forma di deriva autoritaria e informare dei propri valori democratici ogni attore politico. Una sfida anche per l’opposizione che può decidere di ancorarsi ad un fuoco di sbarramento ideologico oppure scegliere di sfidare il governo nel merito dei suoi provvedimenti; le opportunità, in tal senso, non mancheranno: in cinque anni di opposizione barricadera l’attuale maggioranza ha suscitato grandi aspettative, lisciando il pelo ad ogni forma di malcontento organizzato o meno: dai no vax, a chi era contro il green pass oltre che alle chiusure stigmatizzando al contempo il lavoro del presidente Draghi: soddisfare le aspettative suscitate non sarà semplice starà all’opposizione scegliere su quale tavolo condurre la partita. In questo contesto voglio per cogliere una straordinaria opportunità per sanare una ferita antica quanto la repubblica: la mancanza di una memoria condivisa, laddove condivisa non significa l’adesione acritica a qualche versione ufficiale ma il reciproco riconoscimento dei fatti che hanno costituito la nostra storia, dalla nascita della repubblica ad oggi. Nei loro discorsi di insediamento sia il presidente del Consiglio che quello del senato hanno fatto cenno ad eventi degli anni Settanta, uno tra i capitoli più controversi e divisivi della nostra storia, con riferimento all’antifascismo militante e ai morti che la violenza politica di allora ha lasciato sulle strade: per lo più giovani attivisti di opposti schieramenti. Voglio cogliere uno spunto importante in questi riferimenti e valorizzarlo, e lo voglio fare da bresciano, da cittadino, cioè, di una città sfregiata dalla strategia della tensione e dalla violenza degli anni di piombo. Parlando di sé e di Milano, il neoeletto presidente del Senato, ha fatto riferimento ad alcune vittime di quel periodo – che, sottotraccia- gli viene rinfacciato come una specie di peccato originale- citando i casi di Sergio Ramelli e Fausto e Iaio, tutti ragazzi uccisi, su sponde e in modi diversi, negli anni di piombo a causa della loro militanza. Non voglio derubricare questa apertura del Presidente a mera piaggeria d’occasione, la voglio prendere sul serio e anzi rilanciare: sia questa la stagione per addivenire, finalmente, ad una memoria condivisa, di cui questo Paese ha disperatamente bisogno e alla cui paziente tessitura anche Brescia, attraverso il contributo di Casa della Memoria, contribuisce.
Dove per memoria condivisa non intendo annullare le reciproche differenze né sdogare alcun passato politico ma un giudizio condiviso su un periodo di grande criticità per la nostra democrazia, giudizio che parte dal riconoscimento unanime che le vittime sono vittime e basta. Esistono quasi 30 casi di omicidio di militanti di destra negli anni 70 la maggior parte irrisolti: dalla strage di Via Acca Larenzia del 7 gennaio 1978 alla morte di Mario “Cremino “ Zicchieri sei mesi dopo quella di Sergio Ramelli. L’omicidio di un ragazzino di 17 anni non è la morte di un fascista. È una tragedia.
Per troppi anni la destra ha sequestrato alla memoria collettiva questi morti trasformandoli in propri martiri e accreditando l’idea di una persecuzione nei propri confronti che, tra le altre conseguenze, ha anche prodotto la lotta armata dei NAR: lo spiazzo di Acca Larentia è diventato una specie di santuario nero in cui si svolgono tre diversi raduni il 7 gennaio gennaio mentre, nella stessa data, i centri sociali romani organizzano una contromanifestazione poco lontano. In mezzo l’omicidio di tre ragazzi, il più vecchio dei quali aveva 21 anni. Si metta a disposizione della storia del nostro paese questo capitolo doloroso, consentendo a tutti gli italiani di riconoscersi nelle vittime. Consentendo a tutti gli italiani di esigere verità e giustizia come per anni Brescia ha preteso per i suoi morti, vittime del neofascismo. E cessino le censure ideologiche verso di loro, si ammettano le responsabilità politiche -quelle relative al rogo di Prima Valle sono enormi, al punto da rendere questa vicenda un’ingiustizia che deve indignare tutti gli italiani- potrebbe essere l’inizio di un nuovo capitolo nella storia della Repubblica, un passo importante verso una democrazia compiuta e matura.
La condivisione presuppone rispetto per il prossimo, anche quando il prossimo è stato il tuo avversario e ci sono stati episodi dolorosi e biasimabili di tutti i generi.
Pochi sanno portare il proprio contributo alla conoscenza senza voler soverchiare la verità altrui, ben venga uno spazio di discussione purché rispettosa.